Ai tempi della mia tentata collaborazione organica con il centro servizi VSSP, sono stato invitato a portare la mia testimonianza in un convegno AVIPH, dedicato al confronto tra esperienze di integrazione. Sebbene sia un "pezzo" datato 19 marzo 2005, lo propongo perché tra le righe affronta una questione di fondo: chi è davvero disabile e cosa vuol dire esserlo?
Spero di non essere qui per sbaglio, o per un paradosso.
Dovrei parlare della mia esperienza, come tutte le altre vissuta mescolando due aspetti: quello pratico-oggettivo e quello più intimo e personale.
Sono, però, convinto che raccontare la mia esperienza non avrebbe alcuna utilità: il mio decorso clinico, il rimpianto della mia vita precedente, la fatica dell'adattamento alla nuova situazione...
Non è una questione di pudore: a rinunciare al pudore impari in fretta, quando ti capitano situazioni come questa... non è pudore, c'è ben altro.
Ciascuno è l'attore principale del film della propria vita e ciascuno è interessato soprattutto alla trama che coinvolge il proprio personaggio. Ciò non per crudeltà o disinteresse nei confronti degli altri, ma semplicemente perché la concentrazione su te stesso ti aiuta a vivere, a capire, a imparare... si dice infatti che non basta una vita a conoscere se stessi....
Abbiamo un enorme bisogno degli altri, ma molto raramente della loro esperienza.
Non per nulla, infatti, poche cose sono più inutili dei consigli degli altri, soprattutto perché derivano sempre dalla "loro" esperienza della realtà.
E non solo l'esperienza è totalmente ed esclusivamente individuale, ma (a parte le questioni tecniche) neanche è utile: è quando non ce l'hai che potrebbe servirti e, quando te la sei fatta, di solito è già tardi, e contribuisce a farti sentire più vecchio.
E se è "inutile" il racconto della propria esperienza normale, forse lo è ancora di più quando si esce dal normale e si entra in un altro mondo: può interessare ancor meno persone.
Allora non vi annoierò con la mia noiosa storia di persona normale, che si è trovata (a 54 anni, con tre figli e quattro cani in mezzo alle colline, in uno dei momenti più felici della propria vita) ad affrontare una situazione che sta a metà tra un film di fantascienza e uno dell'orrore: si verifica, nell'arco di pochi secondi, un evento che ti sconvolge l'esistenza. Affronti all'improvviso un cambiamento totale, qualcosa che ho spesso paragonato alla morte: un corpo che non ti appartiene più, in mano degli altri, in una vita completamente nuova e diversa rispetto al "prima".
... Scopri nuove fragilità, tutto diventa più complicato, e "tutto" vuol dire "ogni cosa": dal cambiare canale alla televisione all'accarezzare uno dei tuoi figli, se non ti viene abbastanza vicino... Per non parlare poi di tutte le questioni più banali: da non avere più consapevolezza del proprio corpo, significa non sapere se devi fare la pipí, si hai il mal di pancia o se il gatto, preso dall'entusiasmo del gioco, comincia a morderti le dita dei piedi facendole sanguinare…
Ma non sono qui per farvi pena, e nemmeno mi interessa continuare a rimestare il contenuto amaro di questo calice che mi è toccato bere.
Da un punto di vista strettamente pratico, socio-sanitario o normativo, la mia esperienza non è certo diversa da quella di molti che, come me, per la loro sopravvivenza dipendono da altri, che non sono sempre soltanto i familiari (che non tutti hanno), ma che diventano le strutture, gli uffici, le ASL, i timbri, la burocrazia, le norme mai del tutto applicate...
Da questo punto di vista, si esce dalla fantascienza e dall'orrore per entrare in un mondo kafkiano, con aneddoti che starebbero bene in un film di Fantozzi ed altri, degni del peggior romanzo strappalacrime che si possa immaginare.
Quello che davvero è grave è l'assoluta mancanza di quadri di riferimento: ancora non hai ben capito che cosa ti sia successo, che già devi districarti all'interno di un mondo del quale non avevi neppure supposto l'esistenza. Questo a livello sanitario. E poi ci sono tutti i problemi legati agli ausili, che, a parte quelli essenziali, devi cercare di risolvere da solo (e con quali risorse finanziarie proprie?), soprattutto se non abiti in città. E quelli legati all'assistenza domiciliare, compresa quella infermieristica, e poi ancora i problemi connessi alla pura sopravvivenza fisica...
Dopo lunghi mesi di ospedale, te ne torni a casa e non sai nulla. A volte non sai neppure quali sono i tuoi bisogni e, se li individui, non sai chi possa aiutarti a soddisfarli, quali uffici, in base a quali leggi, norme, bandi... e allora chiedi, ma nessuno sa, nessuno può... passi, come un questuante, tra qualche impiegato, qualche associazione specifica, qualche mailing-list su Internet... e di nuovo, da uno all'altro, ma senza grandi risultati...
C'è davvero ancora tanto da fare, soprattutto in tema di informazione (all'interessato e ai suoi familiari) e di formazione (al personale che viene in contatto con questo tipo di problemi): non è un problema di aumento di risorse, ma di capacità di usarle meglio.
...
A questo livello del discorso il mondo migliora molto lentamente e non è questo il momento per discutere di politiche sociali, né sono sufficientemente informato in merito, né sono interessato a questo aspetto più dello stretto indispensabile.
Tornando alla prospettiva più personale, se dovessi fare l'elenco di tutte le cose che mi mancano, avrei bisogno dell'intera giornata per tentare di cominciare a darvene un'idea...
Allo stesso modo, potrei cercare di descrivere, con maggiore introspezione (e con ancora minor pudore) il senso di rabbiosa e disperata impotenza che mi assale quando non riesco a compiere il gesto più banale, come togliermi un capello dalla giacca, o non riuscire più a soffiarmi il naso.
Nell'incidente che mi è capitato, malgrado le conseguenze fisiche e quelle psichiche (meno evidenti, ma altrettanto reali) io sono rimasto lo stesso.
Come avrebbe potuto essere diversamente?
Sono rimasto lo stesso.... come in una specie di anomala reincarnazione, mi sono trovato in un nuovo corpo e in una nuova vita, mantenendo intatta la consapevolezza del mio vecchio corpo e della mia vecchia vita.
E del resto non rimango me stesso se ho il raffreddore, se mi operano di appendicite, se mi estirpano un tumore o mi amputano una gamba...?
Cosa può esserci da raccontare che sia più interessante, nella mia esperienza di paralitico, rispetto a quella di persona con gli occhi azzurri, o con il naso grosso?...
I miei amici mi amerebbero di meno se fossi biondo? Se fossi più magro, sarei stimato maggiormente? Se abitassi in campagna, litigherei di meno con i miei vicini? Se non fossi in questo stato, sarei un padre migliore?...
Cosa ho in comune con tutti gli altri magri, gli altri impiegati, gli altri disabili?
Generosità, debolezze, imbecillità o saggezza sono caratteristiche trasversali e ciascuno continua, come sempre, ad avere a che fare soprattutto con se stesso...
Certo, non voglio sottovalutare il terribile condizionamento cui ti sottopongono certe situazioni, né voglio rischiare di mancare di rispetto a qualcuno, ma non sono qui per fare un discorso generale o tenere una lezione, sono qui soltanto per dare una testimonianza, offrire un contributo, lanciare qualche sasso.
Mi dicono che, trent'anni fa, uno nelle mie condizioni sarebbe morto. Ma la sopravvivenza non basta. Come non bastano mai i sempre inadeguati ed avari interventi pubblici ai più diversi livelli. Né basta uno scalino in meno a consentirmi di entrare in un bar qualunque a bere un caffè, quando occorre almeno un quarto d'ora per scendere dall'auto, dopo aver trovato un parcheggio abbastanza comodo per consentire tutte le varie operazioni...
L'attenzione sociale al mio stato può darmi qualche strumento in più, ma non è il posto gratis al cinema o l'ingresso in un museo a riempire quel bisogno di senso cui diventa urgente dare una risposta. È importante poter disporre dell'aiuto di qualcuno che consenta di non gravare sempre su familiari o amici, ma, alla fine della storia, è l'amore degli altri la cosa di cui abbiamo più bisogno: qualcosa che non si può pretendere, che non può essere data per dovere d'ufficio, che non si può comprare.
Sotto questo punto di vista, non ci sono disabili o non disabili, ma soltanto uomini di fronte alle domande e ai bisogni di sempre: rispondere alla domanda di senso e soddisfare il proprio bisogno di amore sono, in fondo, le uniche cose che contano nella vita.
Di tutto il resto si può fare a meno.
Così preferisco parlare di tutto quello che non è cambiato, di tutto quello che fa parte del mio vero me e che prescinde dall'essere bello o brutto, sano o malato, sgambettante o paralitico. Preferisco testimoniare la forza che mi è venuta dall'avere accumulato, nell'intero arco della mia vita, tesori là dove i ladri non rubano...
E non c'è malattia, incidente o maledizione che possa privarmi del mio essere me, il mio essere persona, unica e irripetibile nel qui e ora della lunga catena del tempo: ho sempre cercato di non affidare il senso della mia vita all'effimero e al transitorio, all'apparenza del bel vestire o del garbato conversare, né ho mai frequentato persone per interesse o convenienza, ma sempre solo per il piacere di farlo; gratis, come gratis è l'amore per i propri amici, sempre, anche quando all'improvviso qualcuno diventa un peso, una specie di sacco di patate da trasportare qua e là.
È questo che può cambiare la vita, o salvarla.
È per questo che non ho nulla da raccontare, devo solo ringraziare, come sempre.
Nell'interminabile graduatoria delle disgrazie, c'è sempre qualcuno che sta peggio: accorgersene aiuta a comprendere meglio un verso del Tao Tê Ching: "Sapere che abbastanza è abbastanza, significa avere sempre a sufficienza".
Grazie per la vostra pazienza
Robella d'Asti, 28 febbraio 2005
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